Un'analisi delle conseguenze a cura di Annamaria Manzoni, psicologa e psicoterapeuta.
Pur in
mancanza di statistiche, è lecito ipotizzare che i cacciatori siano anche padri
di famiglia, abbiano figli e nipoti non diversamente da chi cacciatore non è.
È quindi necessario chiedersi se e come il loro essere cultori di questa
attività si rifletta sui più piccoli, trattandosi di attività che non è
circoscritta alle ore delle famose “battute”, ma che inonda l'identità stessa e
lo stile di vita di chi la pratica.
LE ARMI IN CASA
A
cominciare dal dato di fatto che, nelle loro case, vengono custoditi (speriamo
con adeguata prudenza) i preziosi ferri del mestiere: le armi. Una presenza che,
nella sua costanza, non provoca inquietudine, ma viene normalizzata e genera
assuefazione: un bambino che da sempre le vede non si interroga sul perché ci
siano, esattamente come non si interroga sul perché ci siano l'aspirapolvere o
il forno a micro onde. A differenza delle armi in dotazione alle forze
dell'ordine e di quelle magari destinate al tiro a segno, per altro di solito
non esibite, il problema è che l'essenza di un'arma da caccia consiste nello
sparare,ferire e uccidere, azioni che,
almeno fino all'adolescenza, verranno anch'esse normalizzate.
Trattate
da oggetti di culto, capaci di
trasformare in realtàil sognosognato del prossimo trofeo, costituiscono l'elemento centrale di una serie di
comportamenti che vanno dalle levatacce antesignane del cacciatore di famiglia,
ai suoi rientri, appagati se con accettabile numero di vittime portate a casa
con orgoglio, o accompagnati da malcelati malumori se il bottino è scarso. E i
bambini impareranno a convivere con queste atmosfere e a riconoscere gli stati d'animo: l'ansia
dell'attesa dei giorni di caccia,i
racconti carichi di eccitazione per l'avvistamento dell'animale da colpire, il
non dargli tregua fissandolo nell'occhio del mirino o inseguendolo insieme ai
cani godendo del suo terror panico. E finalmente colpirlo.
I PRIMI ANNI DI VITA E LA RAPPRESENTAZIONE DEL MONDO E DEI VALORI INDIVIDUALI
Per
valutare il peso di tutto questo, va ricordato che i primi anni di vita sono fondamentali per
creare le proprie rappresentazioni del mondo e dei valori della vita,frutto del modellamento educativo proveniente
soprattutto dalle figure parentali, basilare nella strutturazione del carattere
e della personalità.I bambini, in
estrema sintesi, imparano ciò che viene loro insegnato con le parole, ma ancora
di più con i comportamenti: il giusto e
lo sbagliato, il bene e il male sono concetti che prendono formain funzione delle convinzioni e
dell'accezione che i grandi di riferimento, che per molti anni saranno da loro
considerati depositari della verità, danno alle situazioni.
Con
un'attenzione particolare da riservare all'empatia, capacità di identificarsi
con le emozioni e gli stati d'animo dell'altro e di sentirli riverberare su di
sé, condizionando il proprio comportamento: la possibilità di farla propria e
di svilupparla dipenderà in grande parte dai modelli di riferimento, quindi
ancora una volta a fare inizio da quelli presenti in famiglia, che verranno
interiorizzati. Innegabile che quelli intrinseci all'attività venatoria siano
la negazione stessa dell'empatia, in quanto tesi a non curarsi deldolore delle vittime, ma anzi ad inorgoglirsi
del loro strazio.
VIOLENZA SUGLI ANIMALI: LA FORZA COME UNICO DIRITTO RICONOSCIUTO
Non
esiste dubbio che la violenza contro gli animali non umani, tanto più se
gratuita, vada nella direzione
dell'introiezione di modelli aggressivi e prevaricatori, basati su un unico
diritto riconosciuto: quello della forza. Vale la pena ricordare che, dal 2005,
la Violenza Assistita, quella quindi non subita in prima persona, ma come
testimone di quella agita su altri o percepita o anche solo sentita raccontare,
è ufficialmente entrata nel novero delle Violenze Sfavorevoli Infantili,
sfavorevoli rispetto ad un sano ed armonico sviluppo della personalità. E
quella agita sugli Animali è a tutti gli effetti inserita tra le forme prese in
considerazione: al di là delle teorizzazioni,emerge in modo drammatico dai racconti di adulti che mai hanno potuto
dimenticare lo strazio vissuto da piccoli assistendo allo scempio su un
animale, spesso ad opera dello stesso padre.
È doveroso quindi che tra le ricadute dell'attività venatoria non venga ignorato né sottostimato il peso di un'implicita educazione al non rispetto per esseri senzienti, dotati di consapevolezza, vulnerabili al dolore fisico e al tormento emotivo, trattati alla stregua di cose. Tanto più nella diffusa ferocia di questi tempi che non risparmia umani e nonumani, si dovrebbe davvero cominciare a riflettere se tale tirocinio non sia da considerare problema sociale, portatore di valenze francamente preoccupanti, anziché condotta da liquidare con noncuranza come affare di famiglia.
Annamaria Manzoni (psicologa e psicoterapeuta)