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Influenza aviaria: un virus che stiamo accompagnando per mano

Una nuova variante del virus dell’influenza aviaria ha contagiato un uomo che è poi deceduto.

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giovedì 27 novembre 2025

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Animali negli allevamenti

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L'unica direzione possibile è cambiare direzione

Primo caso di decesso umano per H5N5: arriva dagli USA la notizia che una nuova variante del virus dell’influenza aviaria ha contagiato un uomo che è poi deceduto. Si tratta del primo caso di contagio a causa di questa variante a livello globale.

La notizia si sovrappone ad altre che riguardano la diffusione preoccupante del virus dell’aviaria tra gli animali selvatici: in questo articolo si legge che “tra il 6 settembre e il 14 novembre, in tutta l'Unione, c'è stato un record di segnalazioni: quattro volte superiori rispetto allo stesso periodo del 2024. 1.443 rilevamenti di virus dell'influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI) A(H5) in uccelli selvatici in 26 paesi europei.” Ciò indica una “contaminazione ambientale diffusa”. Abbiamo visto le gru che cadevano dal cielo in Germania qualche settimana fa, un esempio inquietante di questa epidemia così violenta.

Ma questo pone anche un rischio altissimo di diffusione all’interno degli allevamenti avicoli, dove avviene il rimescolamento dei genomi virali, e come mostrano le uccisioni avvenute in questi mesi: ciclicamente, infatti, gli allevamenti sono colpiti dal virus e i focolai si moltiplicano. Ciò accade in tutto il mondo, e riguarda da vicino anche l’Italia, dove sono già stati segnalati 20 focolai in questo autunno. Proprio alla luce dei contagi, il 19 novembre, la Commissione UE ha adottato una nuova decisione di esecuzione relativa a misure di emergenza in relazione a focolai di influenza aviaria ad alta patogenicità e l’EFSA ribadisce il ruolo fondamentale della biosicurezza.

Insomma, il copione è sempre quello: contagi, uccisioni (anche note come depopolamenti o eradicazioni), vuoto sanitario, attesa, ripopolamento. E il ciclo continua. Certo, le autorità ribadiscono l’assoluta importanza delle misure di biosicurezza, che però puntualmente non sono abbastanza efficaci, o sufficienti, o abbastanza rispettate.

Il punto è uno: negli impianti zootecnici avicoli sono stipate decine o centinaia di migliaia di animali. All’interno di uno o più capannoni attigui, vicinissimi l’un l’altro. Il terreno ideale per la diffusione rapidissima di un virus, una volta entrato.

E poi ci sono loro, tristi protagonisti indiscussi della crudeltà, gli animali, in condizioni di sofferenza perenne: densità elevatissime, impossibilità di mettere in atto i comportamenti anche più semplici che sarebbero essenziali per il loro vero benessere, l’assenza di luce naturale con il ciclo veglia/sonno imposto dalle luci artificiali, la selezione genetica estrema che li porta a sovra-sviluppare alcune parti del corpo a scapito di tutto il resto, inclusa la loro salute e capacità di difendersi dalle malattie.

Gli allevamenti di galline, polli, tacchini, oche, quaglie, faraone, anatre, sono luoghi infernali.

L’unica misura davvero prudenziale, in questo contesto, per bloccare o ridurre il contagio è semplice: non concedere nuove autorizzazioni alla realizzazione di allevamenti avicoli. Ridurre i numeri degl i animali allevati e le densità, e favorire la conversione del settore.

La situazione la conosciamo: il virus ha già fatto il salto di specie, ad altri mammiferi oltre che all’uomo. Oltre alle gru che cadono dal cielo, anche migliaia di elefanti marini trovati morti sulle coste della Patagonia: il virus sta mettendo a rischio la loro stessa sopravvivenza, uno scenario che lascia sgomenti.

Bisogna dirlo, l’unica direzione possibile è cambiare direzione e mettere un freno alla proliferazione di impianti zootecnici. Noi ci battiamo in tutta Italia contro questo modello distruttivo, il resto sono parole vuote e misure palliative per non vedere l’elefante (anche quello marino) nella stanza.