Ciò accade mentre il Governo italiano rende la cucina italiana patrimonio dell'umanità capitalizzando sulla sofferenza.
C’è una certa poesia nel modo in cui l’UNESCO riesce a premiare due patrimoni gastronomici automaticamente evidenziando tutte le falle di uno dei due.
Da un lato la “cucina italiana”, incoronata come se fosse un affresco da non restaurare mai, così proposta proprio dalla narrazione istituzionale, che la vuole congelata nel tempo senza che possa evolvere, perché solo così è degna di premi e guai a proporre l’innovazione. Tuttavia, se si guarda davvero alla cucina italiana per quello che è, si scopre un patrimonio enorme di piatti tradizionalmente vegani: dai pici all’aglione alla pappa al pomodoro, dalle panzanelle ai fagioli all’uccelletto, tutto senza alcuna sofferenza animale — ingredienti e ricette sostenibili e vegani da sempre.
Dall’altro il Koshary egiziano, piatto di strada, povero, che nessuno ha mai imbalsamato sotto una campana di vetro e che proprio per questo viene celebrato: perché cambia, perché include, perché nutre senza richiedere nessun sacrificio.
Il Koshary nasce già vegano, senza bisogno di reinterpretazioni creative o di chef che si scusano col pubblico prima di togliere il guanciale. Riso, lenticchie, pasta, ceci, cipolle, salsa di pomodoro: ingredienti semplici, accessibili, adattabili. Un piatto che non pretende fedeltà ideologica, ma risponde a un bisogno concreto: mangiare tutti, insieme, oggi. Ed è proprio questa capacità di adattarsi alle esigenze sociali, economiche e culturali che viene raccontata come il suo valore “universale”.
In Italia, invece, la narrazione è un’altra: la tradizione non si discute, si difende (da cosa poi non è mai chiaro). È inalienabile, immutabile, scolpita nella pietra come una legge naturale. Se provi a cambiare una ricetta, non stai evolvendo, stai tradendo. Ci viene chiesto di sigillarci dietro a una tradizione inventata e strumentale, atta unicamente a giustificare ogni anno l’uccisione di milioni di animali e una cultura dell’immobilismo funzionale a preservare la carriera istituzionale di una classe politica disinteressata dei propri cittadini e del loro futuro. La tradizione, ci dicono, non si tocca.
Il pianeta e gli animali si arrangino.
Così succede che un piatto vegano, popolare e inclusivo venga premiato perché rappresenta una cultura viva, mentre noi festeggiamo una cucina raccontata come museo a cielo aperto, dove l’accesso è consentito solo a chi accetta la sofferenza animale: esclusione sociale e disastro ambientale il prezzo da pagare per proteggere il “come si è sempre fatto”.
Il paradosso è tutto qui: il Koshary non chiede a nessuno di morire per esistere, la nostra narrazione gastronomica sì, e pretende pure l’applauso.
Forse l’UNESCO, più che premiare ricette, sta premiando visioni del mondo.
E allora il confronto fa un po’ male: perché mentre altrove il patrimonio è ciò che include e si adatta, da noi si celebra ciò che esclude e resiste al cambiamento, anche quando il cambiamento è l’unica cosa che potrebbe renderci davvero universali, anche quando sta già avvenendo.
Questo non ci fermerà nel lavoro di difesa dei diritti animali e promozione di un’alimentazione sana, inclusiva, pacifica e sostenibile, ci ricorda solo quanto bisogno ci sia.
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Ph: Dina Said - Opera propria, CC BY-SA 4.0 Wikimedia,